L’Italia è stata superata anche da Gambia e Suriname e sprofonda in 58esima posizione per la libertà di stampa come riportato sul World Press Freedom Index. I fact-check con il loro fact-checking dichiarano indipendenza, ma hanno legami con gli enti che dovrebbero controllare o che li finanziano. Cosa non torna dei siti di fact-checking e i fact-checkers. Leggi l’articolo adesso per saperne di più!
Fact Checking: Una religione basata sul conflitto di interesse
Fact-Checking: Per evitare furbescamente qualsiasi tipo di querela per diffamazione, virgolettano le pesanti accuse appellandosi alla loro fonte: NewsGuard.
NewsGuard: una polizia del pensiero privata?
Fact-Checking: Come le tavole della legge sul Sinai, NewsGuard viene quindi portato come fonte di verità assoluta, incontestabile ed eterna. Andiamo quindi a vedere chi sono i rappresentanti di questa nuova religione dell’informazione. Innanzitutto occorre notare come l’autoreferenzialità e non di certo la modestia sia la caratteristica principale di NewsGuard.
“Lo strumento sull’affidabilità dell’internet” è la pomposa scritta che appare a caratteri cubitali sul loro sito.
E che cosa offre nello specifico questo strumento? NewsGuard invita gli utenti ad installare un plug in sul proprio browser che farà apparire un bollino a fianco ai siti di notizie che compariranno sul motore di ricerca usato dall’utente.
Se il bollino è verde significa che NewsGuard ha dato la sua valutazione positiva alla testata. Se il bollino è rosso significa che News Guard ha classificato la testata come diffusore di fake news. Che è quanto successa a tanti siti diffusori di notizie VERE.
Ci si può fidare di NewsGuard?
La prima domanda da porsi a questo punto è: il lavoro di NewsGuard può essere definito realmente indipendente? “Di noi ti puoi fidar” cantavano il gatto e la volpe nella canzone di Bennato. “Perché puoi fidarti di noi?” è il titolo che campeggia in una delle sezioni del sito di NewsGuard.
E come il gatto e la volpe per Pinocchio, NewsGuard si presenta nel migliore dei modi ai suoi utenti. Si auto definiscono “giornalisti esperti”, “appassionati”, “affidabili” e “trasparenti”.
Perché quello che emerge dal lavoro di quest’azienda privata è l’incredibile doppiopesismo utilizzato nel valutare le testate giornalistiche.
Lo staff di NewsGuard sembra infatti puntigliosissimo nel valutare il lavoro di testate indipendenti, mentre sembra chiudere gli occhi di fronte ai ripetuti strafalcioni propinati dalla stampa generalista.
Le fake del mainstream non segnalate da NewsGuard
Nessuna spunta rossa era stata inflitta a La Stampa e al Messaggero quando avevano recentemente riportato la notizia del rider che guadagnava 2.000 euro al mese. Notizia poi rivelatasi non vera.
Così come il bollino rosso non è stato riservato allo speciale di Enrico Mentana lo scorso gennaio 2021 quando in diretta tv nazionale mandava in onda lo spezzone di un film americano spacciandolo per il video di un assalto dei sostenitori di Trump nei “sobborghi di Washington”.
E infine NewsGuard si è letteralmente dimenticato di bacchettare i principali media italiani per il controverso racconto dei fatti sulla guerra civile in Siria.
Quando le redazioni si bevevano tutti i bollettini preparati ad arte dall’organizzazione denominata Elmetti Bianchi. Un gruppo presentato come “imparziale testimone dei massacri di Assad”, quando invece si trattava di un’organizzazione privata, foraggiata dai Paesi occidentali, che lavorava a stretto contatto con i gruppi jihadisti.
Chi c’è dietro NewsGuard?
Si può però ben capire come mai NewsGuard sia così benevola con la stampa generalista, visto che chi lavora e chi finanzia NewsGuard ha spesso nel curriculum esperienze professionali proprio in quelle testate. Come Nick Penniman, uno dei principali investitori, che ha lavorato per l’Huffington Post, il Washington Post e il New York Times.
Difficile credere che Mr. Penniman investa soldi per fare recensire male le redazioni che gli hanno dato lo stipendio in passato. Stesso discorso vale per gli analisti, provenienti dall’area mainstream del giornalismo.
Anche tra gli italiani si vedono i soliti nomi: Il Sole 24 Ore, Sky e il Corriere. Inoltre, secondo una fonte della nostra redazione che ha parlato direttamente con un dipendente di NewsGuard, sembrerebbe che quest’azienda privata arrotondi la propria attività con qualche consulenza alla Microsoft, la creatura di un tale Bill Gates.
Chiedere l’imparzialità a queste persone sarebbe quindi come far fare la recensione di un libro allo stesso autore.
Qui custodiet ipsos custodes?
A questo punto occorre fare due banali riflessioni. La prima è che un’azienda privata come NewsGuard non ha nessuna autorità per giudicare il lavoro di una testata giornalistica. E quindi i suoi giudizi negativi potrebbero rientrare di diritto nella categoria della diffamazione.
La seconda è che bisogna diffidare soprattutto di chi si auto conferisce l’etichetta di “imparziale”. È utile anche sottolineare che questi fact checkers sono in ritardo di diversi secoli rispetto alla lancetta della storia. Perché gli antichi avevano già dato una risposta a coloro che già allora si auto proclamavano come imparziali.
“Qui custodiet ipsos custodes?” e cioè chi sorveglierà i sorveglianti stessi? La risposta è semplice: nessuno. Sull’inaffidabilità di NewsGuard e dell’esercito di fact checkers avevano già risposto quindi molti secoli fa.
La reputazione dei Fact-Checkers ” Indipendenti “
Come si evince anche dalle più piccole ricerche, oramai gran parte del popolo si è reso conto che questi siti che dovrebbero garantire una corretta informazione, tutto fanno, tranne che fare il loro lavoro. D’altronde come si fa a chiedere un parere reale, se poi quelle aziende stesse vengono sovvenzionate da grandi potenze? Come farebbero ad andare contro i loro stessi padroni?!?
Come potete vedere, noi di USPL abbiamo fatto una semplice ricerca di web reputation su uno dei siti di fact-checking ed ecco su questo screenshot la LORO reputazione… PESSIMA DIREI… il 100% degli utenti (TUTTI) hanno votato il sito di Facta.news con 1 sola stella (il voto più basso).
La prossima volta quindi, che vedrete una notizia classificata come falsa su uno di questi siti web, o su un social, pensate bene a chi vi sta dicendo che quella notizia è falsa, prima di tutto. Non fidatevi del SISTEMA SPORCO E CORROTTO che ha le mani in pasta ovunque!
Libertà di stampa: l’Italia sprofonda al 58° posto nella classifica mondiale
È uscito il nuovo World Press Freedom Index – una classifica annuale che valuta lo stato del giornalismo e il suo grado di libertà in 180 paesi del mondo – e per l’Italia non ci sono buone notizie. Il nostro paese occupa attualmente la 58esima posizione, perdendo 17 posti rispetto al 2021 e al 2020 (quando invece era stabile alla 41esima posizione).
L’Italia è stata superata anche da Gambia e Suriname. Nel report, realizzato grazie a interviste rilasciate dai cronisti in forma anonima, la principale novità rispetto agli anni scorsi è legata all’autocensura, ammessa da diversi giornalisti.
Un cambio di rotta che inverte una tendenza che a partire dal 2016 sembrava andare in positivo. Da quell’anno infatti la condizione del giornalismo in Italia aveva fatto un balzo avanti rispetto, ad esempio, a sei anni fa, quando il paese era 77esimo su 180. Il 2022, quindi, ha segnato una battuta d’arresto, dovuta a molteplici fattori.
Come accennato, uno dei fattori che ha particolarmente influenzato la discesa in graduatoria dell’Italia, è l’autocensura: “i giornalisti a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata”, si legge nel report.
Il rapporto punta il dito anche su “un certo grado di paralisi legislativa”, spiegando che questa stagnazione governativa sta “frenando l’adozione di vari progetti di legge”, che avrebbero invece l’obiettivo di tutelare l’attività giornalistica.
Nello specifico, queste normative andrebbero a circoscrivere meglio il reato di diffamazione (che ad oggi è descritto nell’articolo 595 del codice penale e “si concreta nell’offesa all’altrui reputazione operata a mezzo della stampa) e ad alleggerire delle procedure burocratiche che rendono “più complesso e laborioso per i media nazionali accedere ai dati detenuti dallo stato”. Soprattutto durante e dopo la pandemia.
Rimanendo sull’argomento, il World Press Freedom Index si è espresso anche sulla situazione generata dall’arrivo del coronavirus, e che principalmente ha causato una grossa crisi economica in tutto il paese.
Questa difficoltà si è tradotta spesso in una dipendenza dei media dal denaro e “dagli introiti pubblicitari e da eventuali sussidi statali, mentre anche la carta stampata sta affrontando un graduale calo delle vendite”.
Una pressione e intromissione statale che ha avuto modo di farsi notare anche nella “polarizzazione della società italiana durante la pandemia”. Da questo punto di vista il rapporto sottolinea i pur sparuti casi di “giornalisti oggetto di aggressioni verbali e fisiche perpetuate durante le proteste contro le misure adottate dalle autorità per combattere la pandemia”.
Non si lega invece la denunciata autocensura dei giornalisti al clima di polarizzazione che è stato alimentato dai media stessi, dove non si può certo dire che le opinioni di minoranza siano state ospitate in modo degno, ma spesso stigmatizzate.
Andando oltre l’Italia, come se l’è cavata il resto del mondo?
La vetta della classifica stilata da “Reporter senza frontiere” vede la Norvegia al primo posto, seguita da Danimarca e Svezia. Anche la Germania, come l’Italia, perde alcune posizioni, scendendo dalla 13esima alla 16esima.
Un balzo invece per il Regno Unito che passa dalla 33 alla 24. L’ultimo posto spetta invece alla Corea del Nord, preceduta da Eritrea e Iran. La Russia si piazza al 155esimo posto su 180.
In generale, l’indice ha comunque rilevato che il 73% dei paesi considerati è caratterizzato da situazioni gravi o comunque problematiche per giornalismo e giornalisti. Solo 8 paesi (rispetto ai 12 dell’anno scorso) possono dirsi in una “buona situazione”.
Chi decide cosa è vero? Gli ‘scheletri’ dei fact-checker
Dichiarano indipendenza, ma hanno legami con gli enti che dovrebbero controllare. O che li finanziano. Cosa non torna dei siti di fact-checking.
Indipendenti da politica e istituzioni, scandagliano le notizie, verificano le fonti ed emettono il verdetto: vero o falso. E quando sbagliano, si correggono. Questa la policy dei più noti siti di fact-checking.
In lotta perenne contro l’infodemia agiscono da implacabili fustigatori del male della disinformazione in nome della verità. Dai cacciatori di bufale ci si aspetterebbe totale indipendenza, distanza abissale da possibili conflitti d’interessi o da legami anche lontani con organizzazioni, enti pubblici o privati di cui si potrebbero trovare a verificare le affermazioni.
I più influenti siti italiani di fact-checking, Facta e Pagella Politica, sono entrambi testate giornalistiche registrate presso il Tribunale di Milano e fanno parte della stessa società, la The Fact-Checking Factory (TFCF) Srl.
La TFCF nasce nel 2013 come Pagella Politica Srls (il cambio di denominazione è del dicembre 2020) da dieci soci (Pietro Curatolo, De Bernardin, Federica Fusi, Giorgio Gagnor, Amerigo Lombardi, Alexios Mantzarlis, Flavia Mi, Andrea Saviolo, Silvia Sommariva e Carlo Starace) con “l’obiettivo di monitorare le dichiarazioni dei principali esponenti politici italiani, al fine di valutarne la veridicità attraverso numeri e fatti”.
Il sito, però, nato per “inserire una dose di oggettività nella dialettica politica italiana” è già online dal 3 ottobre 2012. Nel 2020 si aggiunge Facta, una sorta di spin-off di Pagella Politica che “allarga il suo campo di indagine a tutte le forme di disinformazione, qualsiasi sia il loro argomento”.
Con un focus dedicato a Covid e vaccini (che aderisce a CoronaVirusFacts Alliance, un progetto per stanare le fake news sul virus finanziato da Facebook, Google e Whatsapp) e uno slogan inequivocabile: “Scegli a chi non credere”. Tra i finanziatori nel 2020: Facebook (all’interno del Third-Party Fact-checking Program), alcuni bandi promossi dall’International Fact-checking Network, l’agenzia di stampa Agi, l’emittente pubblica Rai e la Commissione europea.
Stessa proprietà, con sede a Reggio Emilia, stessi soci e stessa policy. Sul sito di Facta e Pagella Politica si legge: “Nessuno dei fondatori o dei membri dello staff fa parte di partiti e/o movimenti politici e non essere attivi in politica – in partiti, movimenti o gruppi di pressione – è uno dei requisiti fondamentali per lavorare o collaborare con Pagella Politica (stessa cosa per Facta, ndr)”.
Bene. Quanto serve per allontanare anche il minimo sospetto che dietro alla lotta contro la disinformazione si celino forme di propaganda politica o di censura per veicolare verità di parte.
“L’indipendenza – sottolinea a ilGiornale.it Ruben Razzante, docente di diritto dell’informazione all’università Cattolica di Milano e membro della task force governativa contro le fake news – è l’essenza stessa della democrazia dell’informazione. L’autonomia e l’asetticità nei giudizi dovrebbero essere il primo requisito di un’informazione libera.
Se l’informazione è prodotta da soggetti che fanno attività consulenziali o svolgono delle attività retribuite da parte di istituzioni o aziende delle quali poi parlano nei loro articoli, è evidente che c’è un condizionamento.
D’altra parte anche nella deontologia giornalistica c’è il tema della commistione pubblicità e informazione, ma lì è più smascherabile: i giornalisti che fanno pubblicità vengono sanzionati dai Consigli di disciplina.
A livello macro, nella dimensione della rete, dove ci sono tantissimi non giornalisti svincolati dalla deontologia giornalistica, questo tema del conflitto di interessi rischia di produrre degli effetti devastanti”.
E qui, a giudicare dai curriculum dei soci fondatori, i “soggetti che fanno attività consulenziali o svolgono delle attività retribuite da parte di istituzioni o aziende” sono parecchi.
Da collaborazioni presenti e passate con enti internazionali dal profilo politico a consulenze governative retribuite, fino a ruoli operativi e decisionali in organi chiamati a decidere su stanziamenti di fondi. Gli scheletri dei fact-checker abbondano.
Tutti consultabili su LinkedIn.
Silvia Sommariva (oggi non fa più parte della proprietà di TFCF SRL e non ha alcun legame con la società) è ricercatrice in carica dell’Oms (sul suo caso c’è anche un’interrogazione parlamentare del deputato del Carroccio Claudio Borghi) e consulente in monitoraggio dei social media all’Unicef, dove lavora anche un’altra socia: Flavia Mi. Giorgio Gagnor, dopo “un’esperienza in una banca d’affari”, ha lavorato “nel mondo della consulenza strategica tra Milano e Parigi”. Ora si è fermato in Lussemburgo dove è manager di Ferrero.
Carlo Storace, bocconiano, anche lui con trascorsi all’Onu è passato da una società tedesca di consulenza strategica alla MSC (Mediterranean Shipping Company) di Charleston, per approdare all’International Renewable Energy Agency (IRENA) di Abu Dhabi.
Daniele De Bernardin (oggi non fa più parte della proprietà di TFCF SRL e non ha alcun legame con la società), oltre a essere anche analista politico presso Openpolis, da luglio 2020 si è aggiudicato un contratto da 60mila euro annui come consulente del dipartimento della transizione digitale della presidenza del Consiglio.
Anche Giovanni Zagni, direttore di Pagella Politica, vanta un legame ‘governativo’. Faceva parte della task force contro le fake news istituita dall’allora sottosegretario all’Editoria Andrea Martella (si è dimesso dalla “task force contro le fake news” presso la Presidenza del Consiglio già nel luglio 2020).
Amerigo Lombardi ha collezionato stage alla Commissione europea e all’ambasciata Italiana a Zagabria, ha lavorato per una fondazione politica a Bruxelles e all’ufficio Ilo (un’organizzazione dell’Onu che promuove i diritti umani) di Budapest. Ora è rientrato in Italia e si occupa di “politiche sociali e politiche del lavoro”.
Andrea Saviolo, dopo un passaggio alla Nato e all’ambasciata italiana di Sarajevo, lavora presso la Direzione generale per i negoziati di vicinato e allargamento della Commissione europea. In pratica, collabora alla stesura della pianificazione del bilancio comunitario e ai negoziati con gli Stati membri e il Parlamento europeo.
Anche Pietro Curatolo (oggi non fa più parte della proprietà di TFCF SRL e non ha alcun legame con la società), come Saviolo e Lombardi, ha lavorato per la Commissione europea, promotrice del bando di finanziamento Horizon 2020 (grant agreement n. 825469). Vinto dal progetto europeo SOMA di cui fa parte anche la società proprietaria di Pagella Politica e Facta, beneficiaria di un contributo di quasi 180 mila euro.
Infine Alexios Mantzarlis (oggi non fa più parte della proprietà di TFCF SRL e non ha alcun legame con la società), dopo un passaggio all’Undp (Onu), ha lavorato al The Poynter institute come direttore dell’International Fact-Checking Network. Un ente che puntando a costituire una sorta di rete globale dei fact-checker ne certifica l’attendibilità.
Sia Pagella Politica che Facta l’hanno ottenuta, insieme a una serie di finanziamenti stanziati dallo stesso Ifcn. Mantzarlis, a scanso di equivoci, ha dichiarato il conflitto di interessi, assicurando di svolgere per il sito italiano di debunking un ruolo di mera consulenza informale. Un conflitto risolto nel 2021, quando è diventato policy advisor per Google (tra i finanziatori del Ifcn per cui lavorava prima).
Lo stesso colosso del tech che proprio il 2 aprile scorso in occasione della Giornata internazionale del fact checking, ha stanziato 25 milioni di euro per il Fondo europeo per i media e l’informazione che promuove ricercatori, fact-checker, organizzazioni no profit e altre realtà in prima linea per combattere la disinformazione.
A valutare e selezionare i progetti sarà l’Osservatorio europeo dei media digitali (EDMO), un progetto della Commissione europea istituito lo scorso anno e di cui la stessa Pagella Politica è già partner. Legami, nomi che ritornano, progetti, finanziamenti, ruoli che si sovrappongono, legittimi, ma che sollevano qualche domanda altrettanto legittima.
La dichiarata indipendenza da “politica, movimenti o gruppi di pressione” come ne uscirebbe da un’operazione di fact-checking auto applicata?
Un fact-checker firmatario all’Ifcn Code of Principles, il codice etico del network internazionale (a cui in Italia aderiscono solo Pagella Politica, Facta e Open) “è tenuto – ci spiega David Nebiolo di Agcom – a precisi impegni in materia di imparzialità”:
“trasparenza”, “indipendenza dell’organizzazione di fact-checking e dei membri dello staff sia da partiti politici sia da organizzazioni potenzialmente attive in campagne di advocacy su specifici temi di interesse pubblico” e “correction policy onesta e aperta”.
Requisiti rigidi che, se violati, comporterebbero la fuoriuscita dalla rete dei fact-checker.
Non solo. “La mancata adesione al Codice – sottolinea Nebiolo – non consente ai fact-checker di partecipare a numerosi programmi di finanziamento destinati ai soli firmatari del Codice e di prendere parte a programmi specifici di collaborazione con le piattaforme online, quali il Third-Party Fact-Checking Program di Facebook”.
Un duro colpo per gli eventuali “trasgressori” di quell’indipendenza inattaccabile richiesta a chi decide cosa è vero. Che “difficilmente – aggiunge il responsabile dell’ufficio stampa dell’Agcom – supererebbe di nuovo la procedura di valutazione a cui deve sottoporsi per confermare la sua adesione al Codice”.
Poi, però se, come riportato sopra, uno dei soci della testata da valutare è anche il direttore dell’ente che certifica (Alexios Mantzarlis era direttore dell’International Fact-Checking Network quando Pagella Politica ha ottenuto la prima certificazione nel 2017), qualche dubbio resta.
Alla richiesta di una spiegazione in merito, ci risponde via mail Giovanni Zagni. “Nessun socio di TFCF SRL, – scrive il direttore di Pagella Politica – la società proprietaria delle testate Pagella Politica e Facta.news, oggi lavora o fa consulenza per il governo italiano o per l’Oms.
Tra i nove soci, una lavora per l’Unicef – l’organizzazione internazionale e non Unicef Italia, che è una Ong con statuto e funzioni diverse – e un altro presso la Commissione europea.
Ci tengo a sottolineare che i soci di TFCF non hanno alcuna influenza sull’attività della redazione o sulla scrittura degli articoli – ad esclusione mia, che sono socio di minoranza oltre che direttore”.
Sarà. Ma da quanto emerso dal fact-checking di cui sopra, per citare i loro slogan, verrebbe da chiedersi: “Vero”, “Pinocchio andante” o “panzana pazzesca?” Certo, ora “scegliere a chi non credere” potrebbe non essere così semplice.
Sono informazioni agevolmente reperibili attraverso l’esame di una visura camerale o una breve ricerca su internet.
Valutalo, dopo averlo letto, alla fine dell’articolo.
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